Nicoletta Masperi

Le macerie non hanno titolo

Anno 2022

Acrilici su tela. cm. 120×80

Le Macerie non hanno titolo, ma sono riconoscibili

Nulla è eterno Se durassimo in eterno, tutto cambierebbe. Siccome siamo mortali, molto rimane come prima. Cosa sono i millenni? Una manciata di tempo. Polvere in confronto a un unico sguardo dell’eternità. Gli edifici finiscono in polvere come l’uomo mortale che sta accovacciato in un angolo di solitudine mentre l’edificio che crede di possedere viene demolito, ne raccoglie i pezzi, ma non può fare nulla, la fine di tutto è inevitabile. Le macerie si ammucchiano, la polvere entra nei polmoni, il cemento armato è un fallimento, meno durevole della pietra antica. Tutto scivola su un profilato di acciaio freddo. Non possediamo nulla di materiale se non la nostra storia, che non ci ha insegnato nulla, e continuiamo a ripetere errori, mentre tutto ci crolla intorno e ci avvolge in un vortice. “Le macerie non hanno titolo” sono la proiezione di noi stessi, di quello che crediamo di possedere per Essere qualcuno o qualcosa. Il tempo si porta via tutto. Tra 100 anni non ci saremo più e ci saranno altre persone con i nostri stessi pensieri e il bisogno di attorniarci di cose materiali.

Nicoletta Masperi è nata ad Argenta nel 1979. Si diploma all’Università di Ferrara in architettura, nel 2004, si trasferisce a Ferrara dove vive attualmente. Ho sempre disegnato e dipinto fin da quando ero un bambina. Ricordo a 10 anni la soddisfazione di partecipare a un concorso di pittura organizzato dalla scuola. Mi premiarono con delle stampe di Jean Michael Basquiat che mia madre fece sparire dalla mia stanza perché le facevano paura. Ho un percorso di formazione universitaria che mi ha portato ad affrontare una visione strutturale della realtà che mi circonda.

Il disegno è stato all’inizio il mio approccio preferito nel realizzare immagini di qualsiasi cosa mi interessasse copiando stili molto diversi, lo facevo fin dal liceo, in quel tempo avevo saccheggiato l’Espressionismo tedesco e l’Art Brut da cui traevo con gioia ispirazione, mescolavo tutto insieme con la Transavanguardia e Art Pop come orizzonte, non copiavo esattamente il lavoro di un artista, ma piuttosto le atmosfere, i materiali, a volte gli atteggiamenti, ricombinando insieme artisti diversi. Quando ho cominciato a fare i primi quadri personalmente a produrre dei piccoli dipinti, nella mia testa c’erano Ernst Ludwing Kirchner, Basquiat, Penck, Mattia Moreni, i teschi di Enzo Cucchi, l’estetica fredda di Rosemarie Trockel, il lavoro sulla memoria e il fascismo di Fabio Mauri. Usavo testi come “Arbeit macht frei”, oppure frasi come “Tutto sta crollando tranne una zattera in acciaio che naviga nella disperazione”, dove mi riferivo al razzismo nei confronti dei primi extracomunitari. Sono lavori colorati, piacevoli, ma con un messaggio opposto, greve, cupo, ossessivo. Il risultato era una sorta di espressionismo trattenuto, in fondo come adesso.

Gli anni importanti della mia formazione sono stati i primi Anni del Novanta. Dopo, il lavoro ha una struttura portante su cui ho costruito la mia individualità. La pittura degli Anni Duemila ha un peso su come imposto il dipinto o immagino una figura, una sorta di imprinting ricevuto a 24 anni Baselitz, Cucchi, Clemente, Kippenberger, Polke, Pistoletto De Kooning e Bacon: questa è l’influenza di cui sono più cosciente e insieme quella che non vedo più.

La mia pittura la definirei veloce. Difficilmente lavoro su un singolo quadro più di mese senza avere una crisi di nervi e tirare calci a quello che mi sta attorno. Superato questo tempo, significa che ho dipinto almeno tre o quattro quadri possibili sulla stessa tela e nessuno mi andava bene. Immagina la mia frustrazione!

In alcuni miei lavori si alternano e convivono forti dettagli realistici con momenti di disfacimento delle forme che sfiorano l’astrazione. I miei dipinti a cui mi riferisco sono recenti. Ho cominciato qui a Ferrara a inserire sulle figure e dettagli realistici, fotografici, utilizzando la struttura aperta del collage multimaterico. Combino maniere differenti di dipingere per comporre o disgregare la figura che è attraversata da questi grumi di realtà: edifici demoliti, cumuli di calcinacci, brandelli di strutture ormai decomposte, macchine da lavoro in forme quasi antropomorfiche, cibo, occhi, bocche, organi sessuali, feci, pistole, foto di persone del mio quotidiano che “appiccico” sui miei dipinti cercando un trapianto impossibile. Quello che mi attrae nel dipingere un’immagine che ha catturato la mia mente in modo ossessivo in quel momento è la permanenza quasi fisica della figura e la sua resistenza, nonostante tutto quello che posso rovesciarle sopra. La figura continua a mantenere una grande forza narrativa nonostante la mia opera di demolizione e accumulo con decoro di tutto ciò che prende forma quasi autonomamente mentre lavoro sulla superficie dei miei dipinti. L’astrazione in me diventa una coperta corta che non copre l’intero campo, posso utilizzarla ma poi dipingo sempre dei qualche personaggio solitario di emarginato o una presenza esoterica, o dei coniugi che compiono un dialogo immaginario, una faccia che mi guarda, una foto di una persona amica sulla quale prima sono intervenuta in modo casuale ma con l’intento di renderla irriconoscibile “sfregiarla”.

Sia che disegno, che modello, che dipingo, non cambia molto, questo processo di distruzione e costruzione è sempre lo stesso. La novità è che a volte faccio il contrario, da qualche anno per ogni mio quadro ho dei quaderni che tengo da parte solo per me dove per esempio ho ricopiato dal vero alcuni miei dipinti.
Quindi per qualche tempo ho continuato a disegnare dal vero tenendo davanti in posa alcuni miei quadri. Mi rilassava, non volevo investigare o provare delle variazioni, ma banalmente copiare descrivendo in modo convenzionale le forme, non muovevo nulla di strutturale del quadro, alla fine è rimasto un piacere personale, una sorta di nostalgia. Un po’ come vedersi da lontano morti, come copiare dal vero i dipinti realizzati da un’altra persona che non c’è più.

Ho attraversato atmosfere, sedimentato immagini che slittavano da un registro comico e surreale a uno drammatico e grottesco, a volte tutto arrivava insieme. Agli inizi del duemila usavo l’acquerello, inventavo figure che svanivano e riapparivano dentro aloni di luce oppure utilizzavo il monotipo con il colore a olio impiegando delle fotocopie di mie vecchie fotografie, che si fanno al mare, compleanni, alla laurea dell’amica….come base di partenza, ma la stampa schiacciava le figure dentro macchie e deformazioni. Negli Anni Duemila le immagini sono diventate più stabili, usavo molto le tempere su carta e sulla tela ho cominciato a combinare insieme l’olio, lo smalto, la vernice spray, una sorta di sintesi delle fasi precedenti, cosa che faccio tuttora. La mia figurazione non è mai stata nitida, senza incidenti, distorsioni, forzature, ognuna di queste fasi ha maturato una sua tipica maniera, ma questa anarchia dell’immagine, il suo sfuggire una definizione stabile è l’elemento di continuità, una particolarità che cerco di salvaguardare perché mi appare come la realtà vitale dell’immagine.

La storia, la memoria, la religione, il tragico, il grottesco, l’ironia… Come convivono nei miei lavori? Come scelgo i tuoi soggetti e i titoli delle tue opere? Quali le tue fonti iconografiche non sono cose separate, ma intrecciate fra loro, le nostre cose nell’alto e nel basso. Non faccio altro che lavorare su quello che siamo da secoli. I titoli chiudono e aprono delle visioni. Sono altre immagini e il colore è la sensualità del dipinto, la comunicazione profonda non verbale del linguaggio pittorico. Ultimamente lo uso per contrasto, per eccessi più che accordi. La tecnica ha ovviamente importanza, ma non ne ho una precisa, neanche mi piace come idea. Utilizzo tante convenzioni e modi diversi, sopporto male iniziare e finire un dipinto con gli stessi gesti, voglio arrivare in fretta al momento che potrebbe sorprendermi e farmi felice.

Nei miei lavori tengo presente come fonte di ispirazione la vita reale, dalle sue difficoltà e dalla sua bellezza. Mi viene in mente un dipinto come  “ Monnalisa a casa di Katia” del 2022, sullo sfondo c’è un edificio in cui le pareti sono esplose con delle camere vuote come dei loculi, porte e finestre che danno sul nulla, la vita è suggerita da stracci mossi da un vento lento e in primo piano ci sono una donna ed un uomo in un silenzioso dialogo che li trasporta in un’altra dimensione nella parte bassa del quadro attraversano il confine con questo nuovo mondo e spazio il cui confine è materializzato da una sbarra metallica nel disperato tentativo di fondere e tenere uniti un immaginario in disfacimento di cui rimangono le macerie davanti alle quali cerco di affermare una tranquilla realtà appiccicandoci la foto di una “persona”. Allora tutto esiste dentro uno spazio vuoto, fra cruda realtà e fantasia, livore e benevolenza, speranza e delusione. Per me vivere in mezzo a queste macerie recuperate e ripetute come soggetto dei miei lavori è come essere nel punto terminale della mia cultura occidentale, ne vivo personalmente le contraddizioni in modo molto più inteso di quando la studiavo sui libri di scuola. Per me dipingere rimane il linguaggio più semplice e sofisticato per un artista visivo.

Mostre collettive

La Quadrata giugno 2022 segnalata dalla giuria

Telethon BNL Ferrara dicembre – gennaio 2022-2023

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